Chiamami col tuo nome (2016) ha puntato i fari della cinematografia internazionale su Crema e i suoi dintorni. Nei mesi immediatamente successivi all’uscita della pellicola le location hanno funto da poli di attrazione per turisti cinefili che, spinti dall’impulso di dare una forma più personale ed esperienziale alle suggestioni evocate dal film, hanno fatto pellegrinaggio nelle nostre terre.
Sulla scia del successo di Call me by Your Name, Crema, il Cremasco e le zone adiacenti hanno registrato il più intenso fenomeno di esplorazione turistica da parte del segmento cinefilo. Tuttavia, sin dagli anni ‘50 i nostri territori erano già stati interessati della produzione di altri film, di vario spessore culturale e respiro più o meno internazionale.
Se per il film di Guadagnino, considerata la grandiosità del fenomeno nonché la felice concentrazione di location sul territorio, abbiamo scelto di scrivere due itinerari dedicati, uno in città e uno fuori città, per queste altre pellicole si è pensato a un percorso unico che collegasse con linea sinuosa le varie tappe disseminate qua e là nella bassa padana.
Preparati a viaggiare non solo nello spazio, ma anche nel tempo, e a ripercorrere la storia di una piccola ma significativa finestra di cinema.
Ladyhawke (di Richard Donner, 1985) alla Rocca Sforzesca di Soncino
Il film ha bisogno di poche presentazioni: classico del cinema fantasy riproposto molte volte dal palinsesto televisivo, narra di due amanti nati sotto una cattiva stella in un lontano Medioevo di finzione. La trama si ispira schiettamente al Ciclo Bretone o Materia di Bretagna, e in particolare a storie di amori struggenti e travagliate in cui la magia, nella forma del filtro d’amore o dell’incantesimo, gioca un ruolo fondamentale in funzione sia di aiuto sia di antagonismo, come accade nella vicenda archetipica di Tristano e Isotta.
L’amore che Etienne (Rutger Hauer) prova per Isabeau (Michelle Pfeiffer) è osteggiato dal Vescovo (John Wood) che per lascivia e bramosia, sentimenti che male si accordano alla sua presunta vocazione spirituale, scaglia un maleficio su entrambi, costringendoli a trasformarsi alternativamente in bestie – lei falco di giorno, lui lupo di notte – e a non potersi mai incontrare sotto spoglie umane per dar sfogo all’innocente e casta passione. Chiave di narrazione di tutto il film è il viaggio che l’eroe deve intraprendere in compagnia del suo aiutante Philippe per sconfiggere il Vescovo, annullare l’incantesimo e riunirsi con la principessa.
Forse non sai che alcune scene sono state girate nei pressi della Rocca Sforzesca di Soncino; in particolare gli esterni di una delle prime scene, la fuga di Philippe dalle segrete in cui è stato recluso per i suoi furterelli, sono ambientati nei pressi della Rocca. Lo sfondo della scena è dominato dalla silhouette imponente del maniero, con le sue torri merlate e il pontile che sormonta il fossato. Anticamente questa conca perimetrale aveva funzione difensiva ed era allagata; nel corso degli anni l’acqua venne drenata e il fossato ora risulta completamente asciutto e foderato, sul fondo, da un soffice manto erboso.
Dato che la rocambolesca fuga di Philippe da sceneggiatura doveva avvenire via nuoto, in fase di post-produzione è stata aggiunta l’acqua nel fossato, portando virtualmente il castello alle sue origini. Broderick ha in seguito dichiarato di aver passato due giorni al freddo e all’umido dello stagno in cui avvennero realmente le riprese; aspetto estremo della vita da set che, durante la lettura del copione preliminare alla firma del contratto, l’imberbe attore aveva sottovalutato.
Il film offre apprezzabili panoramiche di due lati su quattro del castello, sia in diurna che in notturna. In particolare notiamo il marchingegno che aziona il ponte levatoio e la passatoia che conduce verso l’esterno della fortezza, su cui le guardie del Vescovo cavalcano in gran carriera.
In conclusione possiamo dire che la Rocca è stata utilizzata per descrivere la sede del malvagio Aguillon ogni volta che nel film appare in lontananza. Per tutte le riprese ravvicinate, dell’ingresso e dei cortili, bisogna invece fare riferimento al Castello di Torrechiara a Langhirano (Parma).
Contemporaneamente all’uscita di Ladyhawke, veniva distribuito nelle sale di tutto il mondo un altro film dello stesso regista, Richard Donner: I Goonies (1985), avventura-fantasy destinato anch’esso a diventare un film di culto dei sognanti anni ‘80.
Durante una prima fase di location scouting vennero individuate diverse ambientazioni del film nelle regioni dell’allora Cecoslovacchia. In una seconda fase si valutò la Spagna. Solo in ultima analisi i produttori si orientarono verso l’Italia; quasi tutto il film venne girato nella nostra penisola, e le riprese riguardarono, oltre alle già citate rocche di Soncino e di Torrechiara, anche Castell’Arquato, Vigoleno, Rocca Calascio; nella lista sono compresi tre castelli di proprietà della famiglia del regista Luchino Visconti.
Il mestiere delle armi (di Ermanno Olmi, 2001) alla Rocca Sforzesca di Soncino
Preziosa rievocazione storica con cui il compianto regista Ermanno Olmi porta sullo schermo le vicende della discesa in Italia dei lanzichenecchi, inviati da Carlo V durante le guerre d’Italia della prima metà del secolo XVI per saccheggiare Roma e punire il voltafaccia del pontefice. In particolare la pellicola si sofferma sugli ultimi giorni di vita del capitano delle Bande Nere, il soldato di ventura Ludovico di Giovanni De’ Medici, e dello spaesamento che la sua morte provocò nella compagnia, ritrovatasi senza capitano nel mezzo di una guerra.
Temi del film sono il rapporto dell’uomo con le armi da fuoco e una profonda riflessione di come l’introduzione di queste nella strategia militare, in sostituzione delle tradizionali armi corpo a corpo, abbia modificato sostanzialmente il concetto stesso di guerra, morte, umanità e disumanità.
Alla Rocca di Soncino sono ambientate le scene della porta fortificata di Curtatone, passaggio controllato dal marchese di Mantova Federico Gonzaga che, per evitare guerre e razzie nei suoi territori, decide di concedere senza esitazione il passo ai lanzichenecchi imperiali e di ritardarlo alle Bande Nere di Giovanni. Questo fa infuriare l’eroe, che tuona una filippica contro il corrotto e abietto Federico. Le scene della porta di Curtatone offrono degli scorci eterei della Rocca, immersa in una foschia perenne dal sapore quasi fantasy, tagliata da fasci di luce obliqui, richiami alle atmosfere glaciali delle Saghe nordiche.
Ritroviamo il ponte levatoio già presente in Ladyhawke e altre immagini del cortile della Rocca Sforzesca, rispettivamente ai minuti sedici, trentuno (passaggio dei lanzichenecchi), trentasei (Giovanni De’ Medici inveisce contro il Signore Gonzaga e il suo vicario) e quarantatré (passaggio delle bande nere).
Il film valse al regista Olmi e alla produzione nove David di Donatello, il più prestigioso premio cinematografico italiano. Il numero di vittorie è un guinness per due motivi.
Numericamente parlando, il risultato è tra i più alti in assoluto nella storia dei David: si pensi che, a oggi, il record è detenuto dalla pellicola “La ragazza del lago” (di Andrea Molaioli, 2007) con dieci David: uno stacco di una sola statuetta con il film di Olmi.
Inoltre è curioso come il film abbia totalizzato un totale di nove premi su nove nomination, non lasciando neppure un colpo inesploso.
Oh, Serafina! (di Alberto Lattuada, 1976) a Santa Maria della Croce e Centro culturale sant’Agostino
Augusto Valle (Renato Pozzetto) è un tenero e scriteriato imprenditore che gestisce la fabbrica di bottoni di famiglia con insolita etica ambientalista. Dal cuore innocente, parla con gli uccellini e si oppone alle insistenti pressioni di sostituire la madreperla dei bottoni con resine sintetiche, più economiche ma inquinanti, o di cedere il parco adiacente ai magnati dell’edilizia. Non la pensa allo stesso modo la moglie avida e venale che, in combutta con l’infido commercialista, fa internare il marito in manicomio.
Ed è qui che Augusto fa la conoscenza di Serafina (Dalila Di Lazzaro), dalla bellezza selvatica e fragile psicologia, internata per aver cercato di uccidere il padre dopo aver saputo dei suoi traffici illegali di armi. Contemporaneamente lo spettatore fa la conoscenza dell’ex refettorio di Santa Maria della Croce situato in Piazza Giovanni Paolo II 1, oggi sede dell’Istituto Agrario Stanga, entro le cui quattro mura è stato ambientato il manicomio.
Nella scena si può apprezzare la facciata in cotto dell’edificio, con il campanile della Basilica adiacente che fa capolino dall’angolo Nord-Est del tetto.
Si segnala l’opportunità di visitare questa piazza in particolar modo durante la Fiera di Santa Maria della Croce, evento della tradizione cremasca particolarmente atteso dai cittadini.
L’ospedale psichiatrico ha però una doppia ambientazione: se gli interni e il cortile più piccolo, come appena detto, sono stati girati nell’ex refettorio di Santa Maria della Croce, la maggior parte degli esterni – ovvero tutte le scene nel giardino grande – sono ambientati nel retro della Sala Pietro da Cemmo dell’ex convento Sant’Agostino, un complesso culturale che oggi ospita il Museo Civico di Crema.
Puoi accedere al giardino passando dai chiostri del Sant’Agostino, chiedendo al personale del Museo di accompagnarti a visitare i giardini Zanini. Verrai guidato attraverso Cremarena, dovrai seguire il percorso in terra battuta, tenendoti sulla tua destra le vasche delle piroghe, ritrovamento di archeologia fluviale che testimonia primitivi insediamenti di civiltà nel nostro territorio. Una volta svoltato l’angolo dell’edificio ti ritroverai immerso nel placido cortile, sulla cui erba Renato Pozzetto e Dalila Di Lazzaro si sono rotolati come gatti, alla riconquista di un’innocenza perduta.
Un’altra location sul territorio è la Villa San Michele, situata in Via Fontanoni 4 a Ripalta Cremasca, frazione San Michele, residenza della ricca famiglia di Serafina. La raffinata facciata della villa, gli sfarzosi giardini all’italiana e le statue di matrice classica esprimono l’ostentazione di ricchezza e compiaciuta superiorità di ceto che caratterizza il padre di Serafina.
La villa è attualmente usata come sede per cerimonie o rinfreschi e non è visitabile al pubblico, se non su appuntamento per organizzare ricevimenti o simili.
Il film, trasversale nei generi, ebbe un impatto culturale considerevole sulla vita cittadina. Ibridando più registri, tra cui quello del film scollacciato e licenzioso all’italiana degli anni ’70, la trama di Oh, Serafina! risulta scevra dei rigori morali dietro ai quali la media borghesia ha da sempre trovato comodo scudo, rintuzzando, forte della sua immagine di rispettabilità, i colpi della più fredda e spietata analisi intellettuale.
Se la pellicola suscitò lo scandalo degli adulti benpensanti, diversa fu la reazione dei più giovani. La memoria cittadina ha infatti conservato l’immagine goliardica dei ragazzotti cremaschi che, spinti dalla curiosità di vedere le riprese e di rubare con gli occhi l’immagine della Di Lazzaro seminuda, abbarbicati sui tetti e sui muretti del Sant’Agostino allungavano il collo in direzione dell’azione.
Altra commedia ambientata a Crema è Occhio alla perestroika!, film 1990 diretto da Castellano e Pipolo (nome d’arte per la coppia di registi Franco Castellano e Giuseppe Moccia), con Ezio Greggio, Jerry Calà e Rodolfo Laganà nei ruoli di tre simpatici marpioni che si rifugiano a Crema per sfuggire da liaisons pericolose, intrecciate in quel di Sofia (Bulgaria) di là dalla cortina di ferro.
Pur condividendo lo stesso genere con Lattuada, Occhio alla perestroika! basa la sua comicità su situazioni equivoche ed epiloghi demenziali risultando quindi avulso dalla raffinatezza tematica appena descritta. Gli va tuttavia riconosciuto un notevole valore documentario per la ricostruzione della città di Crema negli anni immediatamente successivi al crollo del Muro.
La città fu massivamente coinvolta nelle riprese: tra i frame del film ritroviamo, come cartoline imbucate dai primissimi anni ’90, Piazza del Duomo (Ezio Greggio e Jerry Calà seduti come Oliver ed Elio attorno a un tavolino di un caffè centrale e poi ancora ai telefoni a gettoni vicino al Duomo), via Giacomo Matteotti 29 (casa di Ezio Greggio), via Armando Diaz 101 (casa di Jerry Calà), l’ex Park Hotel Residence in via IV Novembre 51 e poi ancora quella che ai tempi era “Trattoria Guada’l canal” e che oggi è diventata la Pizzeria Guadalcanal in via Crocicchio 46 (Crema frazione Santo Stefano), dove puoi sederti per prendere fiato e rifocillarti con una cucina che spazia da quella mediterranea a quella tipica cremasca.
Gli sbandati (di Francesco Maselli, 1955) a Ripalta Guerina
Film di matrice neorealista, narra di una famiglia di aristocratici che, per allontanarsi dai disordini scoppiati a Milano durante la Seconda Guerra Mondiale, si rifugia nella campagna cremasca. Qui si ritrova costretta dalle circostanze a ospitare dapprima una famiglia di sfollati, poi alcuni partigiani feriti. La svolta principale della trama arriva quando il rampollo della famiglia Andrea (Jean-Pierre Mocky) si innamora di Lucia (Lucia Bosè) giovane operaia e figlia della famiglia che viene accolta in casa della Contessa. Questo sentimento indurrà Andrea a risvegliarsi dal comodo torpore a cui le ricchezze della madre lo avevano mollemente abituato e a prendere coscienza della situazione socio-politica di estremo disagio che lo circonda.
Come già anticipato, il film si presenta sotto spoglie neorealiste, alla maniera di Rossellini; tuttavia, a differenza di quest’ultimo, il regista Maselli tenta di superare l’estetica del mero “documento umano” per approdare a un’indagine psicologica più complessa e sfaccettata; in questo processo si avvicina, ed è evidente soprattutto nella prima metà del film, allo studio che Moravia fa della psicologia di classe ne “Gli indifferenti”, di cui il film sembra ricalcarne il titolo. Ne Gli sbandati vengono rappresentate le conseguenze psicologiche che la situazione emergenziale postbellica causò a entrambe le classi sociali, ponendo l’accento sul peso molto diverso del sacrificio umano e materiale richiesto all’uno e all’altro ceto.
Maselli girò gran parte del film a Ripalta Guerina.
Le scene degli interni della villa vennero girate nell’elegante Villa Toscanini, sita in via XXV Aprile 33. L’edificio subì la stessa sorte della succitata Villa San Michele ed è oggi sede di ricevimenti e cerimonie, pertanto visitabile su appuntamento per le stesse finalità.
Altre scene vennero catturate per le vie di Ripalta, tra le sue botteghe e le osterie, e nella generica campagna di Ripalta.
Al minuto cinque il protagonista inforca la bicicletta e in compagnia di altri due personaggi raggiunge la piazza centrale di Riparta Guerina. Nella scena è inquadrata la Parrocchia di San Gottardo Vescovo in Piazza Trento 7, dirimpettaia del Municipio; qui Andrea si presenta, richiamato dal Podestà, in rappresentanza della famiglia per dare un contributo per gestire la situazione degli sfollati.
Nella scena successiva, al minuto otto Andrea esce dagli uffici comunali e si imbatte in una scazzottata tra un fattore e il suo ex bracciante nella piazza centrale, gremita di gente concitata. Si può intravedere l’insegna di una “Trattoria dello Sport” in quella che oggi è via Tronca 3.
La piazza si vede ancora e con maggiore ricchezza di dettagli dal minuto trentaquattro, dove possiamo scorgere l’insegna di una generica “Osteria” e delle scritte fasciste sui muri, a contestualizzarne ulteriormente il periodo.
La macchia verde e le rive polverose del fiume che si vedono a più riprese sono riferibili al percorso del Fiume Serio, che con la sua riserva naturale lambisce il confine est di Ripalta.
Durante il film vengono inoltre citati i nomi di Crema, Montodine, Rovereto, Ripalta Nuova e Trescore [Cremasco].
Il film venne presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, dove ottenne una menzione speciale.
Nel 2008 fu poi annoverato tra i 100 film italiani da salvare per il contributo dato al processo di formazione di una memoria collettiva nazionale, in particolare degli eventi riferiti durante l’arco temporale tra il 1942 e il 1978.
La Villa Toscanini utilizzata come residenza della Contessa deve il suo nome al musicista Arturo Toscanini. La dimora risale infatti alla prima metà del ‘700 ed è nota per essere stata la residenza estiva del Maestro.
Il primo giorno d’inverno (di Mirko Locatelli, 2008) a Moscazzano
Call me by your name non è stato il primo film a tematica lgbtq+ girato nel territorio. Quasi dieci anni prima Mirko Locatelli, mettendo insieme con le sue sole forze una produzione indipendente, affrontava la vicenda di Valerio, un adolescente gay costretto a crescere nel contesto ostile della provincia, luogo assai lontano dall’ovattata e idillica serenità rappresentata nel film di Guadagnino.
Come ha dichiarato lui stesso in un’intervista a Cinecittà News, la poetica che lo ha mosso fin dalle prime fasi di stesura del soggetto del film affonda le radici nell’indagine psicologica di un adolescente che si ritrova ai margini della società per una sua diversità. Il tema, caro all’autore, ricorre in altri lavori: in Crisalidi (2005) ad esempio racconta il difficile sviluppo del corpo nei ragazzi adolescenti, ponendo particolare attenzione sui ragazzi portatori di disabilità.
Ne Il primo giorno d’inverno Valerio, 17 anni, è un outsider che annaspa tra le difficoltà di gestire la vita scolastica, i rapporti con i coetanei, le aspettative che la società ripone su di lui. Stempera la pressione del bullismo meschino al quale lo sottopongono i compagni di corso librandosi nell’acqua al cloro della piscina. Un giorno gli si presenta l’occasione di vendicarsi dei soprusi; Valerio decide di coglierla, ma si muove con impaccio in mezzo a strumenti che non sono suoi, quelli dell’odio e del ricatto, e si apparecchia inconsapevolmente un epilogo doloroso.
Il film è stato interamente girato nella brumosa ed evocativa campagna di Moscazzano per gli esterni e a Milano per gli interni.
Sulle strade in terra battuta Valerio scorrazza con il motorino un po’ acciaccato del nonno; in uno di questi viaggi, sullo sfondo si intravede un edificio che ricorda, per architettura, un santuario di campagna. Si tratta della Madonna dei Prati una cappella posta appena fuori dall’abitato di Moscazzano, che presenta al suo interno una ricchezza artistica distintiva, tra cui un’antica immagine della Madonna col Bambino e due angeli, pregevole raffigurazione del Quattrocento lombardo.
Dopo aver visitato il santuario, ti consigliamo di procedere verso il centro abitato e di gironzolare per le vie capillari, immerso in uno degli scenari più particolari della campagna cremasca: un saliscendi continuo e intricato, tra viuzze che sembrano essersi conservate uguali nei secoli e casolari diroccati, simboli di uno stile di vita rustica e malinconica.
Prima di lasciarti alle spalle Moscazzano, fai un salto in uno degli agriturismi più particolari del Cremasco, Chioso di Sotto, in gestione alla famiglia Bertesago e ricavato dalla ristrutturazione di una cascina dei primi anni dell’800. L’agriturismo offre 8 camere da letto, oltre che un ristorante che si snoda in due sale peculiari ricavate dagli spazi rispettivamente di un vero silos e di un vero fienile.
Inoltre ti invitiamo a guardare la replica di un incontro col regista avvenuto in occasione di una serie di appuntamenti su arti e mestieri del Cinema organizzato dal Centro di ricerca A. Galmozzi di Crema.
La bella di Lodi (di Mario Massiroli, 1963) a Lodi
Spostiamoci appena fuori dai confini del Cremasco, e più precisamente nell’attigua città di Lodi, dove aleggia il ricordo della commedia girata da Massiroli.
Definita dal Morandini “storia d’amore tra una ricca, energica agraria del Lodigiano e una lenza di meccanico cremonese”, il film racconta l’impresa semi-disperata di Roberta (Stefania Sandrelli) di trasformare un amore occasionale e fortuito in una relazione stabile, inducendo il suo compagno Franco (Ángel Aranda) a ritagliarsi una via d’accesso al mondo borghese dell’imprenditoria e dei garage delle automobili. Una scoccata verso l’ottimismo di facciata che ha caratterizzato il boom economico degli anni ‘60 nonché una divertita parodia degli arrampicatori sociali che seppero sfruttare quel decennio di benessere.
Se vuoi ripercorrere l’iconica passerella che Stefania Sandrelli fa a bordo della sua Giulietta, devi recarti all’inizio di via Lodino (2), più precisamente appena prima dell’incrocio con via Vistarini, e procedere verso il centro. Ad un certo punto la via confluisce in corso Umberto I, in uno slargo, ai tempi a libera circolazione, ora blindato al passaggio pedonale, con tavolini sparsi e sedie dei bistrot lodigiani. Prosegui dritto per l’elegante e sinuoso corso, lasciandoti a destra il palazzo del Museo Civico e Biblioteca Laudense, e avanza finché non ti ritroverai a ridosso di un arco. Passaci sotto e prosegui sul corso finché non sfocia nella piazza più bella di Lodi: Piazza della Vittoria (3).
Qua la Sandrelli parcheggia la macchina e scende. Si dirige al bar sotto i portici al civico 37, il Caffé Spagnuolo dove si inganna credendo di scorgere Franco di spalle.
Prima di fare questo tragitto, vediamo la Giulietta sfrecciare di fianco alla chiesa di San Rocco e al suo campanile, situatial Piazzale Cesare Barzaghi (1), che è appena più giù di Via Lodino.
Un altro luogo che puoi visitare, spostandoti più a sud della città, è la chiesa di San Francesco sita in Piazza Ospitale (7) che, gremita di figuranti, ha funto da location per le nozze della nonna di Roberta. La chiesa, innalzata attorno al 1280, costituisce il primo esempio di facciata con coppia di bifore a cielo aperto. Questo modello poi si impose in tutta l’Italia Settentrionale tra il Trecento e il Quattrocento.
Il viale che Roberta percorre per rincontrare Franco è viale Trento e Trieste (6), costeggiato da una cancellata in muratura dalle cui fenditure si intravede una fabbrica. La produzione non avrebbe potuto scegliere luogo più azzeccato per ricondurre la relazione dei due personaggi, nata come avventura sulle coste della Versilia, nel quadro della quotidianità industriale della bassa Padania.
Giunto all’estremo est del viale ti ritroverai nel piazzale della Stazione dei treni (5).
È qui che Roberta prepara un’imboscata a Franco e, temendo un ricatto da parte sua, lo fa arrestare. La stazione è fondamentale per gli spostamenti dei lodigiani e dei cremaschi: crocevia obbligato di pendolari e di vacanzieri che partono alla volta del centro-sud Italia. Sullo sfondo, il consorzio agrario.
Se procederai lungo la strada, tenendo la stazione sulla sinistra, arriverai in una biforcazione: a destra inizia via Luigi Anelli Abate, mentre a sinistra si inerpica un vicolo cieco. Pur rimanendo sul ciglio dello snodo, senza avanzare ulteriormente, si può ancora osservare l’edificio del consorzio anche se in stato di conservazione non ottimale.
Ultima tappa dedicata al film di Massiroli è l’edificio in Piazza Castello (4) che oggi ospita la questura, mentre nel film era stato adibito a carcere (esterno). Per raggiungerlo, torna al piazzale della Stazione e imbocca, questa volta, la via antistante, via Dante Alighieri. Piazza Castello è situata proprio al termine della via.
L’occhio cade sulla torre in mattoni che svetta a lato dell’edificio; è il torrione dell’antico Castello Visconteo di Lodi, fortificazione difensiva legata alle vicende del Barbarossa. Venne fatto erigere dall’Imperatore stesso e fu poi ampliato da Barnabò Visconti e dotato di sotterranei e di quattro torri entro il 1370. Durante la dominazione austriaca iniziarono i lavori di demolizione: il fossato venne ricoperto, i ponti levatoi tolti e un’intera ala trasformata in caserma. Oggi, come anticipato, è sede della questura e quindi l’apertura è legata agli orari e alle finalità degli uffici.
Curiosità
All’Ospedale vecchio di Lodi sono state girate parte delle scene di Bianco, rosso e… un film drammatico del 1972 girato, guarda caso, da Lattuada e interpretato da Sophia Loren e Adriano Celentano.
Pier Paolo Pasolini a Sant’Angelo Lodigiano
Si racconta che per le riprese di Edipo Re (1967) il regista e la sua troupe si stabilirono per circa un mese presso l’allora locanda-ristorante de “La Lampara” di piazza Cairoli. L’esistenza di questa attività, ormai cessata, è anche testimoniata dagli annali del Lions Club di Sant’Angelo Lodigiano, che sostengono che l’assemblea di fondazione del club si sia tenuta proprio qui nel 1972, cinque anni dopo il soggiorno di Pasolini.
Film con Alida Valli e Carmelo Bene, liberamente ispirato alla tragedia di Sofocle, narra dell’archetipica vicenda di incesto madre-figlio e della competizione con il padre filicida per la sua stessa sopravvivenza, ed in secondo luogo predominanza. Il tutto viene raccontato con narrazione incastonata: se infatti la cornice del prologo e dell’epilogo è contestualizzata nell’Italia prebellica degli anni Venti, il corpo della narrazione è trasferito, con valore analogico, nell’antica Grecia (tra Tebe, Delfi e Corinto).
Le riprese inerenti la linea dell’antichità sono state girate in Marocco, mentre le scene di cornice moderna, la residenza natale di Edipo, vennero ambientate a Sant’Angelo Lodigiano e dintorni. Per gli esterni venne utilizzata l’ex residenza Corsi di Piazza Caduti 8; negli anni l’edificio venne abbattuto e sostituito da uffici di foggia moderna.
Gli interni vennero ambientati nelle stanze della residenza Gnocchi di via Cavour 12, e nei suoi cortili, dove ha luogo la festa coi balli e fuochi d’artificio che si vede al minuto otto.
Il casolare con l’aia e il muretto adiacente che si vedono ai minuti cinque – la mamma di Edipo va a fare visita ai parenti del marito – e novantasette – Edipo, oramai suonatore di piffero cieco, torna nel paese natio – è Cascina Moncucca, situata in una traversa della Strada Provinciale 17 a Casaletto Lodigiano (LO).
Rintracciabili nella pellicola, altri scorci panoramici della cittadina e della campagna circostante, sui quali svetta, in contrapposizione all’orizzontalità del frame, la sagoma di Castello Bolognini.
Secondo film di Pasolini girato a Sant’Angelo Lodigiano e punta di diamante di questo itinerario, Teorema (1968) è una rilettura moderna della venuta messianica e dello stravolgimento causato dall’incontro con l’entità sovrannaturale, intesa, in questo caso, come incontro sessuale.
L’apatica sedentarietà di una famiglia industriale milanese viene scossa dall’arrivo di un aitante ospite che, nel corso della sua permanenza, si unisce carnalmente con ogni membro della famiglia, inclusa la domestica, introiettando loro il germe della follia, della spiritualità e dell’erotismo. Tale stravolgimento emotivo genera un epilogo diverso per ogni personaggio impattato dall’incontro; epiloghi che Pasolini si compiace di mettere in scena con soluzioni narrative e visive differenti.
Ed è proprio dello sviluppo della madre (Silvia Mangano) che vogliamo tenere traccia, in quanto il suo percorso la porterà, perdendosi, nelle terre lodigiane. Dopo l’epifania, Lucia si dedica all’esplorazione sessuale intrattenendo rapporti occasionali con ragazzi molto più giovani di lei, divenendo a tutti gli effetti un’erotomane.
Consumato uno di questi incontri con due ragazzi, Lucia dà loro uno strappo in una piazzetta dove c’è la statua di quello che sembra un santo. Li fa scendere e chiede loro indicazioni per raggiungere Milano. Se seguiamo le orme della Mangano, ci ritroveremo con i piedi dentro l’aia posta in via P. Donadelli, di fronte alla statua di Monsignor Nicola De Martino. Alle spalle del Monsignor sorge la Basilica dei Santi Antonio Abate e Francesca Cabrini, al quale Pasolini dedica un’inquadratura.
La Basilica, di costruzione relativamente recente (1928-1928), si presenta in muratura continua, con pianta a croce latina, tre navate e presbiterio “a trifoglio”. L’edificio vale una visita per i grandi affreschi delle absidi e delle lunette ad opera di Pasquale Arzuffi oltre che per le belle decorazioni curate dalla scuola del Taragni.
L’inserimento di un luogo di culto nel tessuto urbano, tra architetture che urlano “Novecento”, è l’analogia più efficace per descrivere il concetto di nuova fede, di vocazione prêt-à-porter e metrica della preghiera pronunciata tra le lungaggini dell’ufficio ed una pausa pranzo veloce; non troppo diversa – e qui il montaggio di Pasolini è sapiente – dall’accoppiamento cucinato e mangiato in pochi minuti della Mangano. Il regista lancia il suo sguardo critico su questo concetto di cristianesimo pop e la piazzetta di Sant’Angelo gli offre lo scenario adatto per esprimere tale dolorosa semantica.
Il nostro percorso termina qui, nella sospensione temporale che avvolge la bassa lodigiana. Consigliamo, se il tempo lo consente, una visita di Castello Bolognini e dei tre musei al suo interno (Museo Morando Bolognini, Museo del pane, Museo Lombardo di Storia dell’Agricoltura).
Fotografie della Rocca sforzesca su gentile concessione dell’Amministrazione Comunale di Soncino e realizzate da Francesco Premoli
Altre fotografie realizzate da Mattia Carelli, Alessandro Barbieri e Roberto Lunelio
Informazioni
Il percorso comincia dalla Rocca Sforzesca di Soncino (CR) in via Guglielmo Marconi